Il PCI in Umbria

Simbolo del Partito Comunista Italiano disegnato da Renato GuttusoCome in tutte le altre esperienze della penisola, anche il partito comunista in Umbria si è contraddistinto sia per le caratteristiche comuni con le altre realtà nazionali che per gli aspetti particolari tipici di ogni regione.
Una prima peculiarità del socialismo umbro rispetto ad altre realtà, in particolare se posto a confronto alle altre regioni rosse (Toscana ed Emilia Romagna), è la notevole difficoltà con la quale si sviluppa e si diffonde a partire dalla seconda metà del XIX sec.
Vi sono varie ragioni che spiegano questo fenomeno, da una parte la vecchia dominazione pontificia e l’arretratezza che aveva lasciato, a ciò si deve aggiungere che le prime organizzazioni socialiste si caratterizzavano per essere per lo più associazioni cittadine in una società prettamente rurale, con città ancora percorse da fenomeni di municipalismo.
Una regione che presentava una struttura sociale frammentata, dove gli stessi operai tenevano a differenziarsi per aree territoriali in cui si era sviluppato un particolare settore è il caso dei metallurgici e dei chimici di Terni che tendevano a contrapporsi ai minatori di Spoleto, questo spiega la difficoltà di creare una Federazione socialista umbra.
L’Umbria visse tra l’800 e il ‘900 la netta separazione tra blocco urbano e mondo contadino, il movimento socialista inizialmente si trovò in una difficile situazione di contraddittorietà che ne frenò lo sviluppo, da una parte infatti, esso era interno al blocco urbano, dall’altra tendeva sempre più a presentarsi come momento di rottura dello stesso, attraverso programmi di radicale modernizzazione. Nello stesso tempo non riuscì ad attirare pienamente a sé le masse contadine in parte attratte, in parte respinte, dalla predicazione socialista.
Nel primo dopoguerra l’ambiguità dell’essere realtà esterna - interna ai blocchi urbani viene superata e il partito socialista compie quella saldatura città – campagna divenendone il mediatore principale, questo passo rappresenta una novità storica fondamentale per capire la storia futura della regione[2] e soprattutto per poter comprendere la futura natura del Pci umbro[3].
Quando nel 1921 nasce il Pci, gli scissionisti del Psi portano nella nuova organizzazione le esperienze politiche fatte dal socialismo locale e questo soprattutto in Umbria più che in altre realtà, sono esperienze di lotta operaia e contadina, di cooperazione, sindacalismo, tutela delle autonomie locali, municipalizzazione ma soprattutto di saldatura sociale tra città e campagna[4].
Dopo il congresso di Livorno che aveva visto la nascita del PCd’I, il partito aveva in Umbria un seguito piuttosto esiguo, si trattava di non più di 200 iscritti, per lo più giovani e operai, anche se e questa sarà una caratteristica costante del Pci umbro e non, il gruppo dirigente era composto per lo più dagli esponenti della piccola borghesia cittadina, insegnanti, medici, avvocati, commercianti e artigiani.
Nonostante il partito avesse ereditato dal vecchio movimento socialista l’idea di saldare città e campagna prendendo atto dello sfaldamento dei blocchi urbani e di tutto ciò che ne sarebbe derivato, nel suo primo ventennio di esistenza, il movimento comunista umbro più che operare con una sua chiara linea politica, divenne l’espressione di speranze, miti, idee, che rappresentavano gli aspetti peculiari di quei ristretti nuclei di operai, artigiani e intellettuali che operavano nelle varie realtà locali.
Nella sua prima fase di esistenza 1922-26 era piuttosto isolato politicamente a causa dell’intransigenza che la segreteria nazionale gli aveva imposto e quindi scarsamente efficace da un punto di vista organizzativo.
A partire dal 1926 soprattutto grazie alla vittoria della fazione gramsciana al congresso di Lione[5], iniziò a venir meno l’isolamento ma il 1926 è anche l’anno dello scioglimento del PCd’I (5 novembre 1926), dell’arresto di Gramsci, di un partito che entra in clandestinità in Italia e sposta i suoi centri di direzione politica a Parigi e Mosca.
Il periodo  dal 1926 al 1945 rappresenta gli anni dell’antifascismo, dell’impegno del partito nella resistenza divenendone la componente maggioritaria, purtroppo la storiografia umbra è un po’ latitante rispetto a questa fase, non si sa molto dei dibattiti interni alla regione relativamente a tematiche quali il socialfascismo, il patto d’unità d’azione ecc., più conosciute sono le notizie della lotta partigiana promossa dai comunisti umbri contro il nazifascismo[6].
Il secondo dopoguerra rappresenta un momento cruciale nella storia del partito comunista sia a livello nazionale che regionale, riprendendo la strada intrapresa dal Psi subito dopo il primo dopoguerra infatti, il Pci umbro diventa l’espressione diretta del blocco contadino, in particolare delle masse mezzadrili che cerca di unificare e tutelare, caratterizzandosi come l’organizzazione delle classi subalterne della regione. Il partito e le sue organizzazioni collaterali come, il sindacato, la casa del popolo, la cooperativa, si caratterizzano come luoghi di lotta ma soprattutto di rappresentanza creando un’identità e una consapevolezza nuova tra le classi più povere.
Il Pci diventa strumento di unificazione politica e sociale di una realtà come l’Umbria da sempre frammentata![7] 
Due sono le arene sulle quali si misura la sua forza, da una parte le lotte sociali che interessano la regione nella seconda metà degli anni ’40[8], dall’altra la lotta politica che lo vede primeggiare sia nel personale scontro a sinistra con il Psi (allora Psiup), che in generale come maggiore forza della regione.
La sua ascesa elettorale inizia con le elezioni amministrative del marzo – aprile 1946, continua con l’elezione per l’assemblea costituente del 2 giugno 1946 ( il Pci ottiene il 28,19%, la Dc il 25,8% e il Psiup il 23%), chiaramente in Umbria il referendum istituzionale che si tenne nella stessa tornata elettorale vide la netta affermazione della repubblica.
Nel 1948, nelle ormai famose elezioni politiche, il Fronte Democratico Popolare (Pci e Psiup) stravince con il 47,1% contro il 36,5% della Dc[9]. Il partito si dota di una organizzazione capillare, diviene una sorta di Stato nello Stato, controlla direttamente o attraverso una alleanza a sinistra con il Psi, tutte le giunte comunali più importanti e le due amministrazioni provinciali.
Tutto questo inizia a dare i suoi frutti, sia come numero di voti, come abbiamo appena visto, che come numero di iscritti, il Pci passa dall’avere 11.600 iscritti nel 1944 a ben 49.046 nel 1948 (la cifra più alta di sempre nella regione), rimanendo fino al 1956 ben oltre le 40.000 unità[10]. Interessante è l’analisi della composizione sociale degli iscritti nel periodo 1944-1960, in quanto questo aspetto come vedremo, costituisce una peculiarità del partito in Umbria rispetto al quadro nazionale.
Se infatti a livello nazionale gli operai rappresentavano circa il 40% degli iscritti, in Umbria la situazione era completamente ribaltata in favore dei contadini (mezzadri e coltivatori diretti). Nel 1951 risulta che su cento iscritti al Pci in Umbria, 39 fossero contadini e 30 operai, addirittura nel 1960 la forbice si allarga, i contadini raggiungono il 45.5% degli iscritti mentre gli operai scendono al 26,5%[11].
In quegli anni la prevalenza dei contadini è chiara al punto che fin dalla seconda metà degli anni ’40, l’iniziativa dei gruppi dirigenti comunisti si sposta in direzione delle campagne ed anche se qualcuno continua a dire che l’avanguardia del partito resta la classe operaia in realtà la vera avanguardia in Umbria sembrano essere piuttosto le masse contadine.
Nella seconda metà degli anni ’50 il partito entra in crisi, non tanto nei risultati elettorali che anzi lo vedono progredire sia nelle politiche che nelle amministrative, viceversa inizia ad avere una emorragia di iscritti che si protrae fino agli inizi degli anni ’70. Le ragioni sono in parte da ricollegarsi alle crisi internazionali, in particolare alla crisi ungherese del 1956 e Cecoslovacca del 1968 anche se in questi casi tranne qualche “eretico” subito cacciato, anche in Umbria vi fu una totale adesione alla linea che dava il centro, Roma e in parte Mosca, in ossequio alla nota formula del centralismo democratico tanto cara al partito.
I veri motivi della crisi del Pci umbro sono da rintracciarsi con riferimento a questioni economico – sociali interne al panorama regionale.
Nella seconda metà degli anni ’50 si assiste infatti alla crisi del blocco contadino, si iniziò a sfaldare quel blocco sociale sul quale il partito aveva basato le sue fortune, vi fu un abbandono delle campagne, soprattutto da parte dei più giovani, la popolazione diminuì in tutta la regione a causa dell’emigrazione, a ciò si aggiunse uno spostamento continuo di masse dai comuni più piccoli a quelli più grandi e dalle campagne alle città. Il Pci tentò di presentare un programma di rilancio delle campagne e lo fece all’VIII congresso della federazione di Perugia tenutosi tra il 22-24 aprile 1954, in cui si parlò della necessità di una sostanziale riforma agraria per superare la mezzadria, l’idea era di portare il mezzadro a possedere la terra in maniera tale da avviare un generale processo di rinascita economica, sociale e culturale che avrebbe interessato l’intera provincia, vi fu inoltre una critica molto dura verso il capitalismo monopolistico che non convinse appieno.
Questa situazione di trasformazione della società umbra si protrasse anche negli anni ’60, la crisi della mezzadria che era divenuta irreversibile, l’abbandono della terra, l’urbanizzazione, l’emigrazione, il Pci umbro si trovò a vivere una fase di ricomposizione sociale e trasformazione culturale molto profonda non riuscendo a trovare risposte adeguate, al punto che entrò in crisi la sua presenza nelle grandi fabbriche e nell’agricoltura. Vi fu una diffusione della piccola e media impresa e una decisa espansione del terziario, il partito nonostante gli sforzi, non sembrò riuscire a capire gli eventi fino in fondo, l’ascesa elettorale che pure continuava, non corrispondeva più all’ascesa politica, i voti aumentavano mentre gli iscritti diminuivano e con loro calava la presa sulla società.
Impegnato a doversi districare su questi ambiti si arrivò al biennio ’68 – ’69 con il Pci in una situazione di vera difficoltà organizzativa sia a livello nazionale che regionale. La sua analisi socio – economica appariva inadeguata, in più era isolato rispetto alle altre forze politiche (era il risultato dell’avvento del centro sinistra), fu forse per questi motivi che finì per non capire fino in fondo i movimenti che si stavano sviluppano in quel periodo nella società, non sembrava più in grado di garantire quel cambiamento e quella modernità come in passato.
Agli inizi degli anni ’70 la situazione muta, non solo l’ascesa elettorale è irrefrenabile, nel 1976 alle elezioni politiche raggiunge il 47,3% dei voti, ma torna ad avere un alto numero di iscritti pari a 46.743 unità, dato che si registrò sempre nel 1976, l’organizzazione si riafferma su alti livelli. Finisce anche quella che era stata una peculiarità rispetto alle altre realtà nazionali, tra la fine degli anni ’60, primi anni ’70, cambia la  composizione sociale degli iscritti, gli operai sono diventati la maggioranza e rimarranno tale fino alla fine del Pci (1991).
Nel 1971 su 100 iscritti ben 40.9% sono operai, i mezzadri scendono al 23.7%, mentre aumenta la presenza dei nuovi ceti medi, studenti, tecnici, impiegati, intellettuali e professionisti. In parte saranno proprio questi ceti intellettuali urbani ad egemonizzare la direzione del partito verso la metà del decennio.
L’Umbria è profondamente cambiata socialmente ed economicamente negli anni ’70, vi è stato un aumento esponenziale del settore terziario al punto da superare come numero di occupati il settore industriale, non solo, il 40% degli occupati nel terziario proviene dal settore pubblico che inizia ad avere un ruolo importante nella regione.
Il 7 giugno 1970 vengono istituite le regioni, lo stesso anno si tengono le prime elezioni regionali che vedono una vittoria netta delle sinistre, il Pci ottiene il 41,8% dei voti, il primo presidente della giunta regionale è il comunista Pietro Conti, il Pci prima, il Pds – Ds poi, reggono da sempre la regione dell’Umbria con un loro esponente come guida.
L’istituzione della regione quale nuovo ente amministrativo ben più importante dei comuni e delle province creò diversi problemi nel Pci, sia interni al partito (lotta per accaparrarsi le poltrone), sia tra le forze dell’alleanza di sinistra Pci – Psi, la carica di presidente della giunta regionale divenne ambita come quella di sindaco di Perugia.
La nascita della regione quale importante istituzione decentrata, provocò inoltre una modifica delle stesse strategie d’azione del movimento comunista, il nuovo ente portava con sé sia la possibilità di un maggiore utilizzo della spesa pubblica che l’opportunità di un incremento dell’occupazione in una fase dove, come visto, gli impiegati del settore pubblico assumono una certa rilevanza socio – politica. Il partito si rese conto dell’importanza di gestire questo nuovo potere che nel medio – lungo termine gli avrebbe consentito di legittimare il suo controllo sulla regione. In altri termini si sviluppò in quel momento quel “sistema politico amico” che può essere spiegato come una pratica consociativa posta in essere dai principali partiti e forze sociali che ha nel corso degli anni intaccato, in parte, le stesse regole democratiche e di trasparenza, in cui le decisioni più importanti iniziavano ad essere prese fuori dalle sedi democratiche ed istituzionali, dove i centri finanziari, le società di progettazione ecc. unitamente ad amministratori compiacenti, condizionavano la vita pubblica in termini di assegnazioni di appalti, gestione di concorsi, controllo di assetti territoriali e urbanistici ecc.
Non è un caso che proprio in questa fase si apra la disputa interna al partito che vede proprio il I presidente della giunta regionale Pietro Conti sul banco degli imputati, in quanto ritenuto responsabile del passaggio dei migliori uomini dal gruppo dirigente del partito alle varie amministrazioni locali, trasformando il Pci in un partito d’area e di opinione appiattito sulla gestione istituzionale. Lo stesso compromesso storico non fece che peggiorare la situazione favorendo l’istituzionalizzazione del partito a discapito della sua organizzazione e del suo radicamento sociale.
Neanche il buon andamento dei parametri economici regionali tra il 1970-78, in controtendenza con la situazione nazionale e internazionale e il ricambio generazionale operato agli inizi degli anni ‘80 sembrò far venire meno la dialettica interna tra i dirigenti del partito e gli amministratori, accusati di minacciare l’autonomia dello stesso.
Con gli anni ’80 la politica internazionale assume un ruolo di primo piano anche nelle analisi politiche locali, il Pci torna ad avere un lento e inarrestabile decremento nel numero degli iscritti, non solo, se si esamina la loro composizione sociale si può notare come una fetta importante degli stessi sia ormai formata da pensionati, pari al 25,6% e sia in costante aumento.
A questo si deve aggiungere il forte calo della presenza dei funzionari di partito, i cosiddetti “rivoluzionari di professione”.
Per la prima volta nella sua storia inoltre, il partito ha una flessione anche elettorale che emerge contemporaneamente alla crisi della stessa economia umbra tra il 1980-85.
Se a questa analisi delle problematiche interne si aggiunge la crisi irreversibile dei paesi a socialismo reale, il quadro è ben delineato per spiegare i mutamenti avvenuti nel biennio 1989-1991.

[1] Renato Covino, Partito Comunista e Società in Umbria, Foligno 1994, ed. Editoriale Umbra.
[2] Non è un caso che fino ad allora il ceto dirigente socialista era composto per lo più dagli intellettuali e dai ceti professionali, mentre gradualmente da questo momento (in realtà la cosa era iniziata fin dal 1907-10)  subentrano anche dirigenti di origine proletaria.
[3] Renato Covino, op. cit.
[4] Raffaele Rossi – Alberto Stramaccioni, Per la Storia dei Comunisti di Perugia e dell’Umbria 1921-1991, Perugia 2000
[5] Alberto Stramaccioni, Il PCI in Umbria 1921-1991, Perugia 1992, Cronacheumbreedizioni. Nella disputa ideologica che vide contrapposte le tesi di Gramsci e di Bordiga, il Pci umbro sembra essere schierato sulle posizioni gramsciane, lo si attesta dai due congressi umbri, presente lo stesso Gramsci, che si tennero nell’ottobre del 1924 in una trattoria di Monteverde e nel novembre del 1925 in un edificio in costruzione alla barriera nomentana. Non solo, nel gennaio 1926 si tenne un convegno interregionale in una cascina dei castelli romani, presente Togliatti, in preparazione del III congresso di Lione e in quel caso le tesi gramsciane ebbero quasi l’unanimità.
[6] Il 15 maggio 1943 in virtù dello scioglimento dell’Internazionale Comunista (Comintern), il Partito Comunista d’Italia (sezione italiana dell’Internazionale Comunista) PCd’I diventa Partito Comunista Italiano, PCI.
[7] Renato Covino, op. cit.
[8] Renato Covino, Dall’Umbria verde all’Umbria rossa, in Renato Covino – Giampaolo Gallo,Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Vol. l’Umbria, Torino 1989.
[9] Renato covino, Partito Comunista e Società in Umbria, Foligno 1994, ed. Editoriale Umbra.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
 
Bibliografia
Opere di carattere locale:
-          Renato Covino, Partito Comunista e società in Umbria, Foligno 1994, ed. Editoriale Umbra.
-          Raffaele Rossi e Alberto Stramaccioni, Per la Storia dei Comunisti di Perugia e dell’Umbria 1921-1991, Perugia 2000.
-          Alberto Stramaccioni, Il PCI in Umbria 1921-1991, Perugia 1992.
-          Renato Covino e Giampaolo Gallo, Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Vol. l’Umbria, Torino 1989.
-          Raffaele Rossi, Il Pci in una regione rossa. Intervista sui comunisti umbri, Perugia 1977, Editrice Grafica.
-          Renato Covino, Il Pci negli anni ’70. La composizione sociale dei gruppi dirigenti umbri, “Segno Critico”, n.1 marzo-giugno 1979.
-          Renzo Martinelli, Storia del partito comunista italiano, Torino 1995, ed. Einaudi.
-          Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Torino 1967-75, ed. Einaudi.
-          Aldo Agosti, Storia del Partito comunista italiano 1921-1991, Roma – Bari 1999, ed. Laterza.
-          Giorgio Galli, Storia del Pci, Milano 1993, Kaos edizioni.
-          Aris Accorsero, Il Partito Comunista, Milano 1982, ed. Feltrinelli.

Stampa