Pietro Conti [ biografia commentata ]

Nato a Spoleto l’8 settembre 1928, operaio, iscritto al Pci e alla Cgil, diventa dirigente del sindacato e del partito fino ad essere considerato l’uomo giusto, nel 1970, per guidare la neonata Regione. Confermato presidente, nel 1976 è eletto al Parlamento e lascia l’Umbria.
Rimane a Roma per un decennio e, al ritorno in Umbria, nel 1987, poco prima di morire a Perugia il 7 settembre 1988, diviene sindaco di Spoleto.
"Dobbiamo essere tutti un po' meno comunisti, socialisti e democristiani per essere un po' più spoletini": così diceva Pietro Conti, nel 1987, durante la cerimonia di insediamento come sindaco di Spoleto. E sembra un testamento.
 
Quelle parole, Conti non le aveva pronunciate nemmeno da presidente degli umbri, ma, dette nel contesto della sua città, anni dopo gli anni eroici dell'avvio della Regione, si estendevano magicamente su tutto il percorso fatto e valevano, implicitamente, non solo per gli spoletini.
Per lo meno così, oggi, non possiamo non leggerle: pacate, elementari, minimali parole per dare alla politica il senso e il sapore dell'esperienza.
Conti non sarà stato fino in fondo il personaggio sognante e romantico che può emergere da queste righe, uno, cioè, che apre facilmente il suo marxismo al dialogo con altre culture e lo mette nella disponibilità di altre ideologie.
 
Il dibattito sulla sua formazione, la sua caratura di "operaio" e di dirigente del movimento operaio, non permettono questa che una volta si sarebbe detta "fuga in avanti".
Però, se guardiamo ancora la sua figura di presidente della Regione e lo facciamo fino a penetrare l'immagine fotografica che ce lo riconsegna in certi profili, in alcune pose fatte apposta per far emergere quello straordinario volto scavato e dagli occhi brillanti, non possiamo non avere la visione di un uomo che - in una forma di esistenzialismo priva di esplicite matrici di classe - si duole per quel percorso da presidente finito troppo presto, che scruta ancora avanti con tutto l'umano desiderio di scoprire nuovi obiettivi da raggiungere e da proporre a quanti lo hanno accompagnato, credendo profondamente in lui, nell'avvio dell'istituzione regionale.
Proprio perché rimasto idealmente nel suo "regionale" terreno di partenza - anche se tutta la carriera da parlamentare e gli incarichi romani sono stati ugualmente rilevanti - con Conti si ripresenta un'intera classe politica umbra - quella comunista, democristiana, socialista degli anni Settanta del secolo scorso - e lo fa ritrovandosi, come esortava a fare il Presidente, solidale nel lavoro politico senza il timore di perdere quel poco o quel tanto di peculiarità culturale che è lecito mantenere.
 
La prova di ciò è ancora nelle testimonianze di compagni e oppositori raccolte a caldo su di lui.
Ma, nello stesso tempo, altre prove, lavorando al contrario della testimonianza, rendono autentica la figura di Conti.
Sono i silenzi di oggi, l'incomprensione per un lavoro politico condotto, a differenza di quanto si può fare oggi, nell'assenza, per non citarne che una, di mezzi e risorse europei verso cui orientare l'azione della Regione, a rendere Conti ancora più enigmatico e, in molti casi, sconosciuto alle giovani generazioni.
Va bene la Fondazione a suo nome, va bene il Museo dell'emigrazione di Gualdo Tadino che a ragione gli è stato dedicato.
Ma l'uomo - il militante attorniato dalle masse e il dirigente solo con se stesso, l'operaio e il presidente - è di una complessità politica e culturale ben più ampia del confine di un'appartenenza partitica.
È una personalità che è riuscita a delineare l'istituzione da far nascere toccando il cuore vivo dell'Umbria, stemperando nella razionalità assoluta del legislatore tanto l'emozione derivante da quel contatto quanto la conoscenza scientifica e matematica del territorio che derivava dai lavori del Comitato di programmazione economica degli anni Sessanta, dove Conti ritrovava certamente quell'essere un po' meno comunisti, democristiani e socialisti - e più umbri - che gli faceva strizzare gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco una futura, possibile unità.
Così la realtà politica di oggi finisce per essere nuovamente sollevata e interrogata dal ricordo non formale né partitico di un uomo come Pietro Conti, politico umbro degli anni Settanta del secolo scorso capace come pochi di misurare le alleanze e di dare loro la prospettiva migliore, di non prefigurare scenari insostenibili ma solo ampiezze di plausibile evidenza, di mostrare la malinconia nel sorriso e la serenità nel volto appena inclinato.
Che cosa farebbe Pietro Conti? Non intendendo l'uomo di partito, ma il protagonista dell'istituzione, pensiamo che si troverebbe a riprendere un lavoro interrotto e che, quindi, ripartirebbe da considerazioni sul ruolo di guida che gli è stato assegnato.
Con molta serenità, ma senza abbandonare la necessaria severità, allargherebbe lo sguardo intorno a sé, farebbe affluire a sé le tempeste e le calme maree del governo regionale, sarebbe consapevole della fine della prima, lunghissima era del regionalismo e valuterebbe seriamente – questo sì da storico dirigente del suo partito – un onesto cambio di passo, senza forse stravolgimenti nell'organigramma, ma, in ogni caso, con le orecchie ben tese ad ascoltare progetti rinnovati.
La macchina regionale, certo, l'alleggerirebbe, come il principale progetto in cui la politica e la burocrazia sono chiamati a intersecarsi e a valorizzarsi.
La Regione sarebbe, ancora più che nel 1970, un patrimonio inalienabile dei singoli Comuni, tanto i piccoli quanto i grandi Comuni, senza la pletora delle interminabili istanze endoregionali d'amministrazione, ricerca e chissà cos'altro che si sono affastellate sull'Umbria nei decenni. La funzionalità della Regione, per Pietro Conti, probabilmente consisterebbe ancora in un disegno semplice e sostenibile, bello sulla carta e realizzabile con molto impegno, poche risorse, tanta diligenza nel cercare di fare ripartire e avanzare l'economia umbra con la consapevolezza che il futuro può riservare all'Ente tante trasformazioni istituzionali alle quali bisogna già cominciare a prepararsi con la necessaria visione culturale.

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